I Fratelli Karamazov

A cura di Riccardo Ricciarini

SCHEDA DEL LIBRO

1-Autore

 Fëdor Dostoevskij

2-Titolo

 I fratelli Karamazov

3- Editore

I grandi romanzi BUR, prima edizione 1998, ristampa 2006

4-Pagine

 1043 pagine

5- Genere

Romanzo

6-Motivazione della scelta

 I Fratelli Karamazov era l’ultima grande opera di Dostoevskij che non avevo ancora letto.

7- Cenni biografici dell’autore

Dostoevskij Nasce a Mosca da una famiglia benestante, in giovane età viene arrestato e passa diversi anni in Siberia a fare i lavori forzati, la prima moglie e il figlio muoiono, il gioco lo ossessiona, si sposa con la dattilografa personale. La sua vita non è felice, ma la vive a pieno; muore a Pietroburgo. Tutta la sua esistenza è stata accompagnata dall’epilessia.

8-Sintesi del contenuto

 Il romanzo racconta di quattro fratelli che si ritrovano tutti nello stesso periodo vicino alla figura del padre: un balordo che non ha mai pensato ai suoi figli e mai si è preoccupato per loro. Nel romanzo, il padre viene ucciso da uno dei figli, allo stesso tempo convergono intrecci d’amore impossibili, domande esistenziali su Dio e sulla libertà ed allo stesso tempo appare una variegata società Russa di provincia proiettata sul futuro che sarà.

9- Narratore

La narrazione è in terza persona, la tecnica utilizzata è la cronaca. Di fatto il narratore descrive i fatti per come sono, senza troppe inclinazioni personali seppur troveremo la sua simpatia verso il personaggio di Alesa: il figlio più piccolo. Nel complesso l’autore riporta i dialoghi principali, ma senza mai commentare troppo nello specifico.

10-Stile della narrazione

 La narrazione di questo romanzo la definirei bilanciata, bilanciata in virtù di mille pagine, perché seppur alcune sequenze siano più ingombranti di altre non c’è un vero corpo madre a comporre il libro, ciò non significa che non esistano gerarchie di capitoli. Nel libro troviamo ampi dialoghi, seppur mai estremi, le descrizioni per un libro di una mole simile sono al minimo, ci sono diversi cenni biografici di alcuni personaggi e il commento del narratore è quasi nullo. È doveroso sottolineare, questa mancanza di sbilanciamento che, ad esempio possiamo ritrovare in delitto e castigo che, detiene alcuni dialoghi molto ampollosi o nell’Idiota in cui c’è la totale mancanza di sequenze narrative, infatti il romanzo appare sempre fermo.

Parlando della sintassi si ritrova il classico stile Dostoevskiano: periodi brevi che si alternano a lunghe riflessioni , un uso ampissimo della punteggiatura e soprattutto uno stile non lineare, che più avanti approfondiremo meglio.

11- Contestualizzazione storica

Il romanzo è ambientato alla fine del diciannovesimo secolo (1875-1880 circa), tutto il romanzo si sviluppa nella cittadina di Skotoprogonjevska e in un altro paesino vicino: Mokroe. Questi due province o paesi con il passare del tempo hanno cambiato nome, dunque rendono difficili le ricerche con i miei mezzi, ma ad ogni modo la loro ubicazione non dovrebbe essere troppo distante da Mosca.

12- Ambientazioni della storia

Le ambientazioni sono tutte di carattere popolare, non troviamo i sontuosi palazzi nobiliari di Tolstoj, nel romanzo tutto appare come precario e misero, addirittura nelle case in cui l’indigenza viene a mancare, anzi, dove un certo lusso fa da padrone c’è una certa omissione delle descrizioni. I luoghi principali del libro sono: la casa di Fedor Pavlovic, il monastero, la casa di Katerina Ivanovna, la casa di Gruscenka (Agrafena Aleksandrovna), la casa di Iljusa, la casa della Chochlakova, la sala da “baldoria” di Mokroe e il tribunale del paese.

13-Personaggi

LA SCISSIONE DEI FRATELLI E E LA FIGURA DEL PADRE.

Senza alcun dubbio i personaggi: Dmitrij, Aleksey (Alesa), Ivan e Smerdjakov sono la scissione di Dostoevskij in tutta la sua interezza. Partendo da Fedor Pavlovic possiamo intuire che il personaggio sia perlomeno in parte la rappresentazione del padre di Dostoevskij: un uomo viziato dall’alcol che fu ucciso dai suoi stessi servi. Analizzandolo si nota un enorme egoismo e taccagneria. Seppur non abbia un indole cattiva si comporta come un mostro: il vizio dell’alcool lo comanda, gli piace fare baldoria senza freni, non si è mai realmente preoccupato delle sue moglie e dei suoi figli, tant’è che i figli in tenera età sono stati fatti crescere dal servo nella sua baracca. Però è un uomo che riconosce d’essere uno scarafaggio e in virtù di questo è convinto che Dio con lui sarà misericordioso.

Dmitrij è il fratello più grande, al momento del romanzo ha 28 anni. Di fisico è alto e possente, si vede a prima vista che ha un elevato vigore. Prima dei fatti era un ufficiale, un ufficiale che si è dato ai vizi della vita; molto simile al padre. Infatti come lui è dedito alle donne, all’alcool e alla baldoria. Non è avaro, ma desidera molto denaro, infatti il suo tenore di vita è molto alto. Ivan è il fratello di  mezzo, è quello più dotto tra i quattro, da suo padre viene definito come filosofo. Infatti ,in Ivan ritroviamo un uomo Europeo del XX secolo, ma questo tratto sarà affrontato più avanti. Ivan è malato, ha problemi nervosi e passa la sua vita in molte città differenti; parla poco e di solito è provocatorio.

Smerdajakov è nato da una donna che nemmeno può essere definita tale (così è scritto nel romanzo), c’è la possibilità che il padre biologico sia veramente Fedor Pavlovic, ma questo dettaglio in realtà non è rilevante, anche se interessante. Smerdajakov è cresciuto interamente con i servi, non ha quasi istruzione e una volta divenuto grande è diventato servo pure lui. Ivan con le sue idee ha avuto una grande influenza sulla sua psiche.

Alesa è il figlio più piccolo, è diverso dagli altri uomini, egli vuole diventare monaco. É molto sensibile, pacato e intelligente; è probabile che in vita sua non abbia mai biasimato nessuno. Anche per questo è il preferito del padre. La figura da Alesa attira tutti i personaggi del romanzo, non è mai capito a pieno da nessuno (neppure da se stesso), eppure tutti gli vogliono bene e quasi lo ammirano.

-IL RUOLO TRAGICO DELLE DONNE.

Nei fratelli Karamazov i ruoli delle donne sono a dir poco stupefacenti: molte delle vicende ruotano intorno a loro, eppure i personaggi appaiono come di contorno. Andando per ordine troviamo la più disgraziata di tutte:  Katerina Ivanovna conosce Dimitrij in circostanze torbide, ella gli chiede del denaro per necessità e lui anche con poche finanze glielo rese senza troppi complimenti. Katerina è attratta da Dimitrij. Addirittura vuole scendere a compromessi con la sua rivale:  Gruscenka. Questa donna scompiglierà totalmente padre e figlio; Gruscenka non è di buona famiglia ma è ricca , viene descritta come una di quelle bellezze particolari, che già si sa che col tempo andrà a perdere molto. Il suo animo è afflitto ed umiliato, vuole un riscatto dalla vita e lo vede in Dimitrij. La Chochlakova e Lize sono rispettivamente madre e figlia, sono molto ricche e il marito della  Chochlakova è deceduto. In quella bella casa comandata da donne l’imperativo è il turbamento psichico. Lize dapprima malata fisicamente ha delle fortissime crisi adolescenziali, nel romanzo sono portate all’estremo, quasi distorcono il personaggio, ma l’idea che ne viene fuori è chiara. Sua madre invece è in piena crisi di mezz’età, è sempre contro la figlia e strane idee morbose si impadroniscono di lei. Alesa per lei è il suo angelo personale. Le figure di queste donne che vengono fuori fanno molto pensare il modo in cui l’autore considerasse il gentil sesso, tutto ciò che traspare da loro non appare mai come positivo c’è sempre una decadenza fortissima nel personaggio femminile (l’aspetto così decadente della donna verrà completato più avanti). Infine abbiamo le due ex-mogli di Fedor Pavlovic, di loro c’è poco da dire: semplicemente delle disgraziate.

Kolia: la decadenza dell’uomo dell’avvenire

Il personaggio di Kolia ai fini della trama è secondario, ma dentro di lui c’è un significato potentissimo. Questo ragazzo di nemmeno 14 anni appare: intelligente, vispo, loquace, ben educato, istruito (relativamente alla sua età), di bell’aspetto e schietto. Semplicemente: un socialista. Così a gran voce si rivela ad Alesa. Il modo in cui Dostoevskij ha scritto questo personaggio non fa trasparire minimamente un sentimento d’odio ma di pietà, di pietà verso la direzione in cui le idee giovanili stavano prendendo il largo. Dostoevskij era assolutamente contro il socialismo che, al di là dell’idea puramente politica appartenente ad esso, rinnegava con le sue più alte forze questa concezione di vita. Perché, sì, il socialismo non è solo una corrente politica ma è una chiave di lettura del mondo, una chiave che apre porte fasulle, prive di stanze dopo di loro. Ma in sostanza qual è il vero problema del socialismo per Dostoevskij? Per riassumere si potrebbe dire: la più totale dimenticanza del senso della vita. Questo concetto lo affronterò più avanti con le giuste misure; per ora è bene notare il fortissimo richiamo di Bazarov di Ivan Turgenv in Padri e figli. Bazarov e Kolia sono in pratica lo stesso personaggio, in Turgenv ritroviamo una figura più estrema: Bazarov si annuncia come nichilista.

Ippolit e il senso patetico dell’uomo moderno

Ippolit fa trasalire per la pateticità che l’autore prova per l’uomo moderno. Egli è il classico uomo dal pensiero limpido e cristallino. Abbraccia le nuove tendenze e da esse decreta il vero. Nel romanzo il suo compito è quello di leggere l’enorme arringa verso Dimitrij; in quel singolo ma lunghissimo monologo appare per interezza tutto il suo pensiero e la sua mediocrità. Critica la Russia con criterio socialista, fa il più largo uso della psicologia spicciola e infine biasima, biasima quell’uomo che ha di fronte, egli non lo comprende per nulla, lo decreta come un idiota dentro di sé, ma ovviamente non lo esplicita. In questo personaggio ritroviamo un chiaro riferimento di Ippolit che compare nell’ “Idiota”, entrambi sono tisici, compaiono poco nel romanzo, ma quando prendono parola la prolissità fa da padroni.

I  poveri scemi del libro

Ovviamente in questo romanzo non ci sono solo contrapposizioni ideologiche, c’è pure la piattezza. Molti personaggi sono dei veri e proprio disgraziati, distrutti dalla loro società e da loro stessi. Cito i più importanti: i servi di Fedor Pavlovic, Iljusa e suo padre, i servi delle altre case.

Padre Zosima

Padre Zosima è uno starec (ruolo del mistico ortodosso, non per forza per essere starec è necessario essere monaci), è lo spirito guida di Alesa, di fronte a lui prova la beatitudine, semplicemente è il suo idolo. Ma come tutti gli idoli ad un certo punto si frantuma e per Alesa sarà causa di enormi turbamenti. Più avanti affronterò la figura dell’idolo

14- Tematiche emergenti

Le tematiche che emergono fuori sono molto ampie, la prima la più evidente è il denaro. Esso manovra il padre e Dimitrij, anche se in maniera differente. Il padre, come noi moderni, dal denaro ne ricava sicurezza, esso lo desidera non tanto per spenderlo ma per possederlo. Mentre per Dimitrij è l’inverso, lui ha bisogno del denaro per sperperarlo, deve fare baldoria, in essa c’è tutta la sintesi della sua essenza. Dunque il denaro riesce a separare un padre da un figlio.

Un altro tema è la disgrazia esistenziale di questi quattro fratelli, l’unico è Alesa che non si salva per se stesso, ma come Cristo è felice e soddisfatto delle sue scelte, ma anche qui ci ritorneremo avanti più tardi.

15-Il messaggio dell’autore

Ciò che appare chiaro è il preludio del nuovo tipo d’uomo che verrà, un uomo soggiogato, soggiogato come gli uomini prima di lui, ma con la differenza che il giogo questa volta è il nulla. Appare strano pensarlo, il cristianesimo perde di significato, o meglio, Dio perde di significato; poiché l’essenza cristiano e socialista è la stessa. Dunque c’è una sorta di cristianesimo senza Dio, ma ancora non è sufficiente, entra in gioco la scienza che, attraverso il suo metodo: soggioga tutti gli uomini moderni (“La scienza e la tecnica sono la mera assicurazione senza scopo”M. Heiddeger; Oltrepassando la metafisica), nessuno escluso; il non conformarsi a questo super-ente (più avanti il termine sarà meglio spiegato) significa subire un esclusione sociale, e l’uomo da “animale” fisiologicamente socievole com’è non riesce a non farne meno.

Dunque questa è la visione dell’uomo moderno, la sua problematicità non è subito tangibile, ma attraverso certe indagini esce fuori. Qual è il senso dell’uomo moderno? Quale scopo esso persegue? Qui l’escatologia non riesce a venire fuori, c’è un forte senso di vuoto; se non altro questa tendenza socio-culturale riesce a porre le domande sbagliate, che attraverso quelle, certi problemi nemmeno appaiono. Noi vogliamo il perché delle cose, ma il senso di queste cose dove lo abbiamo lasciato? Attraverso la matematica concezione della causa ed effetto il nostro sguardo non mette a fuoco l’essenza dell’ente. L’errare tra gli enti è il nostro vizio, ed una volta che gli enti sono terminati cosa rimane? Il ni-ente. La “favola” ci ha soggiogato:“Non pretendere di determinare l’ente attraverso un riferimento derivato da un altro ente, quasi che l’essere avesse il carattere dell’ente. (M Heiddeger Essere e tempo). La radice del problema è in sostanza una visione distorta delle gerarchie; ma di questo parleremo nel prossimo capitolo finale, che tenterà di spiegare almeno in parte ciò che non ho concluso prima.

16- LE INTERPRETAZIONI DI QUESTO ROMANZO

Dostoevskij raccontava favole?

La domanda posta in questo modo fa quasi ridere, ovviamente per favola intendo il significato indicato sopra. La questione è complessa: Dostoevskij non ha raccontato favole, non ha errato tra gli enti, anzi ha sempre criticato questo metodo da quella maledetta vigilia di natale del 1849. Ma che cosa significa errare tra gli enti? É il non rispettare la giusta gerarchia: piano ontico e piano ontologico (li voglio visualizzare come delle aree per poter rendere più forte il significato, anche se il termine corretto è dimensione…). Il piano ontico per sua concezione è subordinato al piano ontologico, infatti nell’area ontica ci si limita alla specificità dell’ente, mentre in quello ontologico sull’essere; sempre quel essere che entifica l’ente. Dunque, noi moderni attraverso la nostra cultura socio-scientifica con radice cristiana siamo delimitati alla pura e mera visione dell’ente. Partiamo dalle fondamenta: il cristianesimo nella storia ha tentato d’oggettivizzare l’essere, definendolo Dio. Abbiamo deciso di dare il ruolo all’entificazione a qualcosa, ma dando questo ruolo a qualcosa, esso è concepito come un ente, è come dire che l’essere sia in virtù dell’ente; questo è il problema del mancato rispetto della gerarchia. Con questo primo ma gigantesco “errore”, siamo riusciti poi ad oggettivizzare il mondo attraverso l’adequatio rei et intellectus, ergo: scienza. Se perlomeno Dio era di concezione astratta, come quindi quell’ente dal potere “speciale” che ha influenza su altri enti definito come super-ente, adesso il nostro super-ente è spogliato da quel “super” e rimane ente mascherato da super-ente. Infatti la nostra concezione di vita è totalmente subordinata dal metodo scientifico che, svolgendo il suo compito egregiamente quasi riesce a rispondere alle più alte domande esistenziali. Però in quel quasi è racchiuso l’intero abisso ascoso del campo ontologico: a dare la cause siamo stati bravi, a dare un senso un po’ di meno. Per motivi divulgativi però è bene pure precisare che la prima distorsione dell’essere non fu cristiana, ma dalla grecità scolastica. Il primo a dire che l’essere fosse un idea fu Platone, definendo l’essere come idea lo ha travisato, lo ha reso un ente. Poi la storiografia da questa concezione si è sviluppata. Ma chi era il maestro di Platone? Fu Socrate, e io invito a revisionare quel personaggio; grandi eruditi ne hanno descritto la sua problematicità e corruzione primordiale. Per corruzione primordiale faccio riferimento a quel famoso “conosci te stesso” che non ha per nulla un sapore Greco, ma moderno… Per non incappare d’andare fuori tema mi fermo qui, ma la questione è molto più ampia; per gli interessati consiglio il capitolo: Il problema di Socrate, Il crepuscolo degli idoli di W. F. Nietzsche. Tornando al discorso se Dostoevskij raccontasse favole o meno abbiamo capito che non rientra nel piano ontico, questo suo tratto lo spiegherò nel prossimo sotto-paragrafo. La sua concezione di vita appare diversa da noi moderni, la sua psicologia è acuta e molto fresca per quell’epoca, ma oltre questo Dostoevskij è un inattuale. Un inattuale a modo suo, poiché la sua inattualità ha molti problemi. Ma per essere degli inattuali è necessario essere o filosofi o folli. Dostoevskij era forse un filosofo?

Dostoevskij era un filosofo?

Aprendo il più blando dei siti ci appare come tale, ma dal mio canto echeggio un sonoro No! Come abbiamo detto prima egli non era sul piano ontico e dunque per suo effetto si dovrebbe trovare in quello ontologico; in quel piano in cui si INDAGA sull’essere e non sull’ente, ma Dostoevskij nemmeno per sbaglio ha fatto qualcosa del genere, è come se si fosse ritrovato, smarrito a metà di queste due aree molto specifiche. Io ho voluto definirlo come “punto di mezzo”: quell’area nebbiosa tra il piano ontico e quello ontologico. Se in quest’ultimi due c’è una linea guida che traccia l’andare del pensiero, nel punto di mezzo c’è solamente una fitta nebbia che non fa rivelare nulla, ma anzi, essa distorce, essa illude. Poiché una volta entrati lì dentro non è rimasto altro che l’illusione, qual era l’illusione di Dostoevskij? Il suo concetto di cristianesimo che, attraverso Alesa riesce a delinearsi un minimo, esso non è di facile comprensione, non perché sia di estrema complessità o qualcos’altro, ma è l’interpretazione personale dell’ipotetica futura alba… (a breve il discorso su Alesa sarà ampliato). Adesso desidero però spiegare chi è il vero filosofo, perché è un termine a mio parere usato sconsideratamente. Il fatto di pensare ad una determinata cosa con un certo criterio non ti rende tale, il filosofo è colui che riesce ad indagare sull’essere (piano ontologico), privo dall’ausilio d’ogni tipo di scienza e di logicità classica, altrimenti si è sul piano ontico. Con questa concezione si dovrebbe rivalutare la storiografia della filosofia, ma questa visione la lascerei solamente agli addetti ai lavori. Agli occhi di un vero filosofo l’amore per il pensiero non ti rende uguale a lui, non esiste alcuna filantropia o uso nel mondo filosofico “Ahimè, chi conosce il cuore umano sa quanto anche l’amore migliore e più profondo, sia povero, sprovveduto, arrogante, fallace, più distruttore che salvatore. Al di là del bene e del male F. W. Nietzsche.”

Il problematico weltanschauung Dostoevskiano

Questa è probabilmente la parte più delicata di tutte, queste sono interpretazioni personali che però non vedo come potrebbero essere dissentite in qualsiasi modo. La concezione della vita di Dostoevskij che appare in questa sua ultima opera è spaventosamente ingarbugliata, perché in un angolo troviamo la decadenza moderna di Ivan e Smerdjakov, in un altro punto c’è la particolare cristianità di Alesa e infine c’è la spregiudicatezza di Dimitrij. Com’è possibile che tutte queste divergenze convivano dentro la stessa persona? Andando contro corrente proverò a dargli un senso, senza guardare molto la causa. Per motivi pratici partirei con Dimitrij. Egli lo si può sintetizzare come l’orgasmo per Dioniso, è il suo più grande discepolo; Dimitrij alla vita dice sì! Egli ha la peculiarità d’essere in grado d’accogliere il lògos, egli non conosce se stesso, abbraccia ciò che è. Questa è la grecità di Dostoevskij, è quella grecità pre-socratica inattuale che, nel nostro mondo non riesce a trovare spazio. Infatti Dimitrij è sempre definito come un poco di buono, è diverso dalla massa soggiogata; Dimitrij non è cristiano: è Greco, egli venera Dioniso. Da questa scelta “religiosa” possiamo osservare il ruolo della donna: egli non cerca la salvezza dalle donne, ma la pienezza, il poter dir di sì al suo io, è l’antitesi della castrazione metaforica cristiana. La donna vista come salvezza per gli uomini può essere tale solo in presenza d’una radicale decadenza, prendiamo per esempio Raskol Nikov di Delitto e castigo, egli è soggiogato da quel fantomatico ente travestito da super-ente che prima ho spiegato, da questa soggiogazione ne è uscito come lo schiavo degli schiavi e quando era al suo limite massimo egli dove ha trovato conforto? Nella povera Sonja: una disgraziata ragazza costretta a prostituirsi per mantenere la famiglia. Dalla mia visione questo è l’acuito della decadenza; ma il vero problema non è questo… Il fatto è che noi moderni in quel Raskol Nikov ci riconosciamo, ci sentiamo affini a lui, noi appoggiamo le sue idee, sono giuste… quasi lo veneriamo e Dostoevskij, mentre ideava questo personaggio, ha speso anima e corpo nel renderlo così affine a noi , poiché lui non ha lavorato in prima persona, ha dovuto usare il cannocchiale per creare un essere così distante da lui. Se Dostoevskij in Raskol Nikov ha voluto descrivere lo specchio della decadenza, della soggiogazione, perché noi ammiriamo molto quell’exstudente di giurisprudenza?  E ora un altra domanda, in quanti di voi si riconoscono in Dimitrij?

Ahimè nessuno… altrimenti questo articolo nemmeno lo stareste leggendo.

Il suo andare vagabondando senza un sentiero preciso dove porta? Egli va alla ricerca dell’alba, dell’alba che fu…

Sempre per restare vicini a Raskol Nikov ora parliamo di Smerdjakov: in sostanza sono lo stesso personaggio. La loro gigantesca differenza è il lato estetico che, Dostoevskij in delitto e castigo ha scolpito a meraviglia il tormento e inquietudine del protagonista, mentre nei fratelli Karamazov Smerdjakov non piace per nulla al lettore, la sua caratterizzazione è fatta per creare repulsione, e sinceramente ci riesce molto bene. Allora perché Raskol Nikov piace e Smerdjakov no? È tutta colpa di quella estrema caratterizzazione d’ogni minimo turbamento dell’ex-studente, perché sono quegli stessi turbamenti che più o meno tutti proviamo. Nel povero Smerdjakov queste descrizioni non vengono fatte, ma ciò non significa che egli non li abbia provati; andando ad analizzarli ritroviamo molte somiglianze: entrambi sono soggiogati da un idea che non gli da pace, uccidono uno “scarafaggio” sia in virtù di questa idea e in secondo luogo, come accessorio, per il denaro, l’età è molto simile, le condizioni di vita pure, e in fine c’è la follia dopo il delitto, Smerdjakov trova la salvezza attraverso il suicidio questo gesto sorprendente rivela la sua natura così estrema, inoltre è curioso notare che nelle sue prime descrizioni ci sono i tipici tratti dello psicopatico.

Dunque io, in Smerdjakov e in Raskol Nikov, ritrovo quei tratti dei pensatori della notte che sarà, il loro pensiero si basa sulla logica del fare, come se la loro “filosofia” si potesse basare su radice empirica in prima persona. Un termine moderno per loro due è: nichilisti attivi; nella nostra società essi trovano il giusto posto, non c’è ne sono molti, ma essi valgono per molti più uomini. Attraverso le loro idee ed azioni porteranno a termine la fase crepuscolare in cui noi occidentali ormai da tempo viviamo, loro porteranno la notte… e poi che sarà?

Ora è il turno di Ivan, egli a detta del padre è un filosofo, se non altro è quello più erudito della famiglia, ma allo stesso tempo è quello che ne soffre di più. In Ivan ritroviamo per interezza l’uomo europeo del ventesimo secolo, le sue idee lo hanno soggiogato e a sua volta lui soggioga altre persone con le proprie, egli però in pratica non le metterà mai, è più uno spettatore che ha un influenza passiva molto forte. Nel suo far nulla fa molto. In linea generale si pone diverse domande esistenziali: la più fondamentale è l’esistenza o l’inesistenza di Dio oppure se l’uomo è davvero libero; da queste domande si capisce concretamente che lui non è per nulla un filosofo, esse sono mal poste, chiedendosi ciò a già detto di no alla vita, per come essa è. Come sempre Heiddeger corre ad aiutarci: (“Il colpo più duro contro Dio non consiste nel ritenerlo conoscibile, nel provare l’indimostrabilità della sua esistenza, ma nell’innalzarlo a supremo valore”). Come al solito c’è la mancanza del rispetto delle gerarchie in tutto ciò, Ivan erra sguazzando in mezzo agli enti, perché: dov’è la differenza nel sapere che io sia libero o meno, in che modo questa concezione cambia la mia vita? In tutta questa condizione Ivan si ammala piuttosto gravemente, diventa schizofrenico, il “diavolo” in persona gli appare e conversa con lui. Qui il significato è chiarissimo, Dostoevskij attraverso Ivan grida: diventate pure come lui! Seguite la strada delle idee “giuste” e poi vedrete come finirete.

 Adesso è doveroso chiarire che cos’è la verità, essa ha sicuramente assunto la sembianza dell’adaequatio, ma in essa c’è tutto il limite per indagare sull’essere, non è dunque meglio e conveniente intendere la verità come alètheia, comerivelazione, come la non-ascosità? Ma questa è un altra questione che è sicuramente d’approfondire in futuro…

 Comunque è bene ricordare come dice Nietzsche: (“Come potrebbe qualcosa nascere dal suo contrario? Per esempio la verità dall’errore? O la volontà di verità dalla volontà di illusioni? O l’azione dal proprio tornaconto? Al di là del bene e del male”) e tanto per rincarare la dose: (“Non è più che un pregiudizio morale, che la verità abbia più valore dell’illusione: è addirittura l’ipotesi peggio dimostrata al mondo” Al di là del bene e del male).

Ad ogni modo in Ivan si ritrova un fortissimo spirito filantropico, tutte le sue idee in fondo sono subordinate da un certo tipo di bene, da questo fatto però è simpatico vedere che le sue idee non portano al bene, ma solo pene e nulla più. Come se in tutto in tutto ciò il compito filosofico di mettere a disposizione un certo tipo di ragionamento venga a mancare, quindi è Ivan a mettere male in pratica il compito filosofico di trasmettere un idea per un certo tipo di benessere comune, oppure è sbagliato credere che la filosofia a priori abbia un certo tipo di compito.

Heiddeger dice: (“è quanto mai esatto e perfettamente giusto dire che -la filosofia non serve a nulla-. L’errore è soltanto di credere che, con questo, ogni giudizio sulla filosofia sia concluso. In realtà resta ancora da fare una piccola aggiunta sotto forma di domanda: se cioè, posto che noi non possiamo farcene nulla, non sia piuttosto la filosofia in ultima analisi è in grado di fare qualcosa di noi, se appena c’impegniamo in essa.”)

Con questa errata linea di pensiero troviamo il tramontare dell’uomo, la sua decadenza. Con questo nostro fare simile a Ivan siamo nel tramonto (quasi alla notte grazie a Smerdjakov). Guardate dove tramonta il sole. Non è forse un caso che noi ci definiamo come tipo di mentalità occidentali? Per concludere ora tocca ad Alesa, sicuramente chi ha letto per intero il libro si è reso conto della sua particolarità, quasi come se fosse estraneo dalla “vita vera”, ma infatti, lui come Dimitrij sono gli estranei del crepuscolo, se Dimitrij è l’alba che fu, Alesa è l’ipotetica alba che sarà per Dostoevskij. C’è da dire che non esiste una probabilità matematica di questa futura alba, poiché l’alba che fu, è esistita, ne abbiamo la testimonianza storica, nel tramonto ci siamo ora e la notte volente o dolente dovrà sopraggiungere prima o poi. Quindi dire a priori come sarà la futura alba per il pensiero umano è impossibile, però ognuno di noi attraverso i propri strumenti può dire la sua.

Dostoevskij, con Alesa fa tutto ciò; Alesa vive il Cristo in una maniera speciale, egli crede in Dio, ma se anche venisse alla scoperta della sua inesistenza per lui non cambierebbe nulla. Qui però non dobbiamo confonderci con quel cristianesimo laicizzato che prima spiegavo, perché non ha nulla a che vedere con la religiosità di Alesa. Il cristianesimo di Alesa ha la peculiarità di riuscir a dire di sì, cosa che storicamente il cristianesimo per come lo concepiamo non ha minimamente fatto. Ma allora perché quello di Alesa dice di sì e il nostro urla il no alla vita. Semplicemente Alesa come suo fratello è guidato dal lógos, rispetta la gerarchia degli enti rispetto all’essere e da esso ne trae fuori le sue ragioni di vita, che esse non sono predefinite per ogni uomo che abbraccia ciò che è, ma sono frutto del suo ambiente e della sua esistenza (“l’esistenza previene l’essenza” Jean-Paul Satre). Attraverso Alesa ritroviamo in Dostoevskij un fortissimo carattere esistenziale che non deriva da alcuna logicità, ma è la sua fisiologia che la vita a sua volta gli ha impresso. Questo carattere esistenziale molte persone non possono possederlo, poiché si sviluppa in situazioni limite. Un esempio poco ortodosso che voglio fare è Pietro Pacciani. Esso è diventato famoso per essere il presunto mostro di Firenze. Egli davanti alla corte d’assise imputato di molteplici omicidi legge una poesia scritta da lui: (“Se ni’mondo esistesse un po’di bene e ognun si considerasse suo fratello, ci sarebbe meno pensieri e meno pene e il mondo ne sarebbe assai più bello”). Ovviamente a prima vista non può non sopraggiungere una certa ilarità, però voglio far notare che questi versi sono stati scritti da un uomo semi-analfabeta in un contesto difficilissimo della sua vita, sempre questi versi sintetizzano, seppur in maniera bambinesca il pensiero di Alesa.

Dostoevskij pur idolatrando Alesa ha inserito nel romanzo la sua totale inefficienza alla vita pratica. Alesa è l’idolo di Dostoevskij e padre Zosima è l’idolo di Alesa, ma come tutti i presunti idoli terrestri rivelano la loro mancata idealizzazione. Di fatto quando padre Zosima muore dopo qualche ora il suo corpo emana un tanfo fuori dal comune, la salma del santo dopo la morte non dovrebbe puzzare, qui non c’entra la questione di fede, è un fatto quasi scientifico. I monaci che vivevano negli eremi conducevano una vita di stenti, la penitenza era all’ordine del giorno; molti monaci avevano corpi emaciati per la privazione del nutrimento. Per essere santo questa pratica doveva essere portata al limite e come è giusto pensare: come fa un corpo quasi privo di carne a emanare una puzza simile dopo qualche misera ora? (nel libro fanno notare che il primo accenno di puzza è sopraggiunto in un tempo assai breve. Nemmeno una salma “normale” avrebbe potuto fare di meglio)

I monaci quasi entusiasti (non tutti) hanno la conferma che nelle sedute private con le signore il buon padre Zosima accettasse i loro doni culinari, cosa assolutamente sconveniente per quel tipo di monaco.

Alesa da questo fatto ne esce sconvolto, si rende conto di questa inesistenza degli idoli, ciononostante continua per la sua via, consapevole che magari “pure Dio pecca”, tutto ciò non cambia la sua vita; egli è un vero uomo di fede: ha fede in se stesso.

Così fa Dostoevskij, paro paro ad Alesa; mi chiedo soltanto: perché Dostoevskij ha aspettato l’ultimissimo periodo della sua vita per sfornare un personaggio simile? 

 Alesa non è un uomo del nostro tempo, è tra noi come Cristo: non condivide il tipo d’esistenza attuale, però non la biasima. Egli pone un seme sulla terra e con la pazienza di un vecchio contadino attende, attende l’ipotetica alba che sarà.

Oltre il senso, la causa

Per rendere il lavoro più completo immagino che oltre il senso del weltanschauung Dostoevskiano anche cause di esso potrebbero essere interessanti. Partiamo con la sua parte moderna (Ivan e Smerdjakov): Dostoevskij in giovane età prese parte a dei gruppi segreti di stampo socialistico terroristico. Le idee che circolavano in quei luoghi, lo hanno sicuramente condizionato a vita, non perché ha subito un lavaggio del cervello o simile, perché il mondo (in modo meno particolare in Russia però) stava cambiando verso quelle stesse idee che giravano in quei circoli. Di fatto alcune delle tesi che venivano mostrate in quei luoghi segreti erano la normalità in altri paesi, o perlomeno l’andazzo di certi paesi era verso quelle tematiche. Nell’impero Russo queste pratiche espositive di tesi o addirittura il metterle in pratica ove fosse possibile, erano assolutamente illegali, le pene erano molto severe. Ad ogni modo Dostoevskij oltre che a prendere parte a questi circoli appoggiava queste idee, in esse ci credeva e questo è un dato di fatto. Poi la sua vita lo ha portato a tornare indietro sui suoi passi.

Infatti nel 1849 viene arrestato, dopo qualche mese di prigionia in una casa matta viene emessa la sua sentenza: fucilazione. La vigila di natale viene portato in piazza per essere ucciso, bacia il crocifisso, si pente davanti a Dio e la condanna di morte attraverso la grazia dello Zar viene tramutata in quattro anni di bagno penale. Il miracolo divino non c’entra, era uso dei soldati fare questi scherzi con i prigionieri, però voi altri nei panni di Dostoevskij dopo aver baciato il crocifisso ed esser stati salvati da una provvidenza dalle parvenze divine, la vostra vita avrebbe ricevuto un qualche influsso verso la religiosità cristiana? Per di più nel periodo della prigionia in Siberia l’unico libro da leggere per Dostoevskij era la bibbia; con tutte queste circostanze è inevitabile che per lui la figura del Cristo assumesse una nuova forma, essa col tempo si è tramutata fino ad essere l’Alesa che noi conosciamo.

Mentre il riscontro che abbiamo con Dimitrij è l’assoluta dipendenza per la roulette di Dostoevskij, in Russia non era possibile giocarci, quindi per essa ha girato alcuni paesi dell’Europa. Quel dannato gioco lo ha praticamente rovinato, si è indebitato più volte fino al collo. Ha dovuto scrivere alcuni libri con i creditori alle costole(l’esempio più tangibile: il giocatore; dove in parte racconta la sua esperienza). Dostoevskij mentre giocava perdeva ogni lucidità di se stesso, non ragionava più come un uomo razionale, l’impulso lo guidava fino alla disgrazia. Io in tutto ciò non posso far altre che rivedere l’interezza di Dimitrij.

L’unione di queste caratteristiche che di solito possiamo difficilmente ritrovare in un solo uomo Dostoevskij le ha tutte, è per questo che ha una poliedricità interna così vasta. Ed è sempre per questo che è diventato un grande letterato (anche grazie ai suoi studi e la passione, ma questi sono dettagli secondari).

Dunque egli non era un filosofo, nemmeno un poeta, il suo stile lo dimostra: non c’è la minima traccia di ricerca della parola, questa sua caratteristica la voglio attribuire al suo passato da socialista. Attraverso la pratica oggettivizzante di tutta la sfera culturale socialista, è come se in Dostoevskij questa oggettivazione si sia impressa solo nella ricerca della parola. In essa manca la pratica di custodire la manifestività dell’essere; ma tutto ciò non è sorprendente: come dissi già prima, Dostoevskij non è riuscito a fare quel salto metaforico verso il piano ontologico. Dunque per sua concezione questa ricerca della parola non è possibile.

In estrema conclusione è simpatico notare che Nabokov diceva che lo stile di Dostoevskij è molto simile a quello di un mediocre giornalista, inoltre lo criticava per le sue prostitute troppo spirituali e per gli assassini troppo sensibili. Credo che in queste semplici frasi ci sia tutta la vera problematicità dell’autore che, se letto da teste poco fini possa renderlo piatto o ancor peggio lo si possa travisare per ciò che non è.

RICCARDO RICCIARINI

Bibliografia

-I Fratelli Karamazov (Dostoevskij)

-Delitto e castigo (Dostoevskij)

  • L’idiota (Dostoevskij)

-Fedor Dostoevskij Lettere (Alice Farina, Giulia De Florio, Elena Freda Piredda) -Padri e Figli (Turgenv)

-Il crepuscolo degli idoli (Nietzsche)

  • Al di là del bene e del male (Nietzsche)

-Il tramonto dell’Occidente (Galimberti)

Sitografia

-Wikipedia

di Riccardo Ricciarini